Il dono della disperazione
Mi sono laureato a 29 anni, dopo essermi diplomato a 25 in un’istituto professionale per elettricista.
Gli anni precedenti sono stati segnati da tentativi di fuga, di trovare pace, di trovare casa, di trovare un porto, di capire e sentire che c’era altro oltre ciò che vedevo.
Mi ha salvato la provvidenza, il caso, il destino, l’intestino (non è una battuta), mi ha salvato quella spinta magica fondata sulla disperazione che ti spinge a cercare oltre, a camminare, quella forza che ti riempie di sabbia i vestiti e i capelli come quando si cammina in una tormenta nel deserto, dove fatichi a vedere a un metro da te, ma devi camminare, e cammini.
La sabbia ti entra dappertutto, negli occhi, nelle orecchie, ti sembra di non vedere nulla. I vestiti diventano sempre più pesanti e i passi sempre più lenti. Poi qualcosa succede, perché qualcosa succede sempre nella vita, a condizione che non si resti sul divano a piangere e guardare il soffitto.
Il cielo si schiarisce, il vento cala, il corpo ti chiede riposo…e appena ti rialzi, ti accorgi che il vento ha schiarito il cielo, magari ha disperso le tue tracce dietro di te, così non puoi nemmeno ossessionarti sul percorso che hai fatto fino a quel momento.
Ti da nuovi panorami, .e soprattutto, ti trovi con tanta di quella sabbia addosso, che finalmente puoi costruirci la tua nuova casa, la TUA tana, quella che cercavi mentre attraversavi la tormenta bestemmiando e urlando il tuo senso di ingiustizia e rabbia.
Ho deciso di occuparmi di me attraverso l’altro mentre ero in Inghilterra, sebbene abbia avuto fin da che ho memoria la severità del samurai verso me stesso. Mai fatto atto più (sanamente) egoistico, mascherato da altruistico.
A Manchester giravo hamburger, tanti, quintali al giorno, mettevo le etichette alle magliette, pulivo bagni, sorridevo, non ridevo, e non facevo ridere nessuno.
Il mio inglese improvvisato mi faceva volere bene ma non mi permetteva di comprendere l’ironia inglese e di usare il mio sarcasmo amaro che mi metteva al sicuro con i miei amici in Italia.
Girando tonnellate di hamburger sentivo che qualcosa mi urlava dentro, qualcosa mi chiedeva di vedere oltre, oltre la griglia rovente, oltre il grembiule sporco di carne e grasso, che tutto aveva una forma, un senso, anche se non capivo quale.
Il modo in cui mi ero costruito la mia percezione del mondo, dei miei drammi, della mia famiglia e delle mie sventure, mi aveva fatto diventare cintura nera quinto dan di vittimismo. Ero uno jedi dell’autocommiserazione, ovviamente celata dietro un sorriso gentile e azioni educate.
La speranza che un enorme e onnipotente papà, superman, Gig Robot d’acciacio o Gesù venisse a sistemare tutto al canto di una mia preghiera , mi diceva quanto fossi piccolo e spaventato.
Il limite linguistico e la balbuzie mi obbligavano a tacere ed ascoltare, e la vastità del cielo atlantico inglese mi commuoveva facendomi percepire la piccolezza della mia percezione fino a quel momento. C’era molto altro, altrove, non sapevo dove, ma era evidente che ci fosse.
Il mio corpo mi chiedeva di mollare il controllo e la mia mente (ego) mi obbligava a tenerlo.
Una serie infinita di eventi, tutti concatenati, un domino di “coincidenze”, mi stava silenziosamente spianando la strada, mi presentava persone nuove, amori nuovi, mi faceva fare pace con conflitti vecchi.
Sono stato e sono un privilegiato.
Qualcosa più grande di me, che mi possedeva, esattamente come mi possedeva la paura, l’impossibilità di dire pronto al telefono e il vittimismo, mi stava facendo costruire una casa nuova, con i granelli di sabbia e i sassi che mi avevano investito e che avevo maledetto nel percorso.
Tutto trovava senso. Le persone che avevo incontrato, gli errori che avevo fatto, quelli che stavo commettendo raccontandomi di fare bene, le esperienze che avevo vissuto, i rimpianti per quelle che NON avevo vissuto.
TUTTO, lentamente, aveva trovato senso. Lentamente si costruivano pezzetti di vita, di casa, di famiglia, di me, di un me nuovo che non vedevo e nemmeno potevo immaginare nella tormenta.
Qualcosa dentro di me mi diceva una cosa semplice, fidati…tutto troverà un senso, le 25000 volte che pensavi di non farcela ce l’hai fatta, sorridendo alla fine. Il problema è solo un errore di statistica. Ci dimentichiamo le 25000 volte che eravamo certi di non farcela, dimenticandoci i sorrisi che abbiamo fatto subito dopo avercela fatta.
L’altro giorno con mio figlio pensavo di morire su una giostra a Gardaland, affianco ad un bambino di 9 anni che rideva, una di 11 che urlava e una vecchietta dietro di me che pensavo potesse morire al solo tornello di ingresso.
La nostra percezione è solo un problema di statistica. Tutto qua. Pensiamo di dire verità assolute, che ciò che pensiamo sia l’unica verità possibile, che ciò che viviamo sarà per sempre, di non potercela fare, che siamo condannati a soffrire, ad essere amati per sempre, che verremo traditi sempre o non verremo traditi mai, che non troveremo mai più un partner, che non vorremo mai più amare, che non vorremo mai più smettere di amare.
Temiamo l’assoluto e ci fermiamo ad affermazioni che cercano di fermare il tempo, facendoci scordare quanto alla fine, siamo solo tronchi in mezzo alla corrente.
Troveremo spiagge e insenature calme, convinti che è tutto merito nostro e tutta colpa loro.
Ci sono forze più grandi di noi…basta sapere fare il morto, galleggiare, guardare il cielo sopra di noi..e ogni tanto pinneggiare per spostarsi un po’ quando vediamo i sassi, ricordandoci sempre, che anche in caso di collisione, al massimo cambieremo traiettoria.