Arrivo da un fine settimana molto piacevole, sereno, in cui ho potuto scaricarmi di tensioni e stanchezze che in qualche modo inquinavano in modo sotterraneo e non i miei pensieri. Lo dico perché credo che sia stato importante questo “ordine” per la riflessione semiseria che sto condividendo.
La pulizia del pensiero permette di vedere meglio le dinamiche proprie e quelle circostanti. Ieri sera cambiando canale sono capitato, purtroppo, su “c’è posta per te”, programma che detesto da sempre perché punta in modo assolutamente pietistico e buonista alla pancia delle persone, a quel vomito emotivo che fa facilmente commuovere o arrabbiare, dividendo il mondo in facili schieramenti: Buoni contro Cattivi, Abbandonati contro Insensibili, Vittime contro Carnefici.
Mi sono fermato a vedere il programma per un dettaglio: il modo di piangere e cercare consolazione di un padre affranto che chiedeva perdono alle figlie per la sua assenza emotiva dopo la morte della propria moglie. Gesto davvero commovente, dolore reale su cui non voglio scherzare, atto coraggioso, molto catartico e lo dico senza ironia, ma esibito e strumentalizzato dal programma e dai suoi registi in un modo assolutamente teatrale e teatralizzante, fatto sicuramente in modo onesto dal padre, ma a mio avviso in modo molto poco consapevole di sé. Perché farlo davanti alle telecamere? Perché avere bisogno di un pubblico che applaude a comando con una regia degna del tempo delle mele? Figlie che piangevano e comprensibilmente affrante, padre senza nessun contenimento e che piangeva sempre di più ad ogni applauso programmato, musica ad hoc, effetti di luce, bambini che entravano a intonare filastrocche facendo giochi di luce con laser proiettati sul pavimento. Gli ospiti illustri commossi e solidali, il pubblico in piedi, Maria De Filippi che leggeva parole misurate e mirate a commuovere.. insomma, Walt Disney si stava toccando secondo me (peccato però che nella vita fosse un nazista xenofobo e fedifrago).
E la mia domanda è semplice. Il dolore ci legittima a tutto? Qual’è il confine e cosa è davvero utile per uscire dal nostro malessere?
In studio spesso vedo la stessa cosa. Persone veramente belle, con un’animo ricco di emozioni, di riflessioni profonde che stanno cercando qualcosa dentro di loro, però spessissimo in un contesto che esisteva prima della loro percezione di cambiamento (si, perchè spesso iniziamo a cambiare e non ce ne accorgiamo nemmeno).
Penso ad una moglie che sta cercando di scoprire se stessa in una famiglia che non sente più sua, ad un padre che ha voglia di essere un individuo diverso, ad un figlio che vuole emanciparsi e deve rompere dei legami troppo invischianti con i propri genitori. Insomma, le dinamiche possono essere le più svariate e accomunano tutti noi prima o poi se cerchiamo di evolverci.
Il bisogno di essere onesti, di cambiare, in noi stessi e di conseguenza nei rapporti umani, soprattutto quelli iniziati prima del cambiamento (e che inconsciamente ci tengono vincolati ad un vecchio sè, difeso, rigido), ci da il diritto di dire e fare ogni cosa in funzione di un dolore che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo?
Sentendoci in credito verso la vita per un dolore che abbiamo vissuto, pensiamo che ciò che diciamo e facciamo pesi di meno su chi ci sta affianco?
Sia chiaro, nessuna astrazione teorica, sono un essere umano, un padre, un figlio e ho rapporti interpersonali affettivi in cui mi misuro ogni giorno, ho le mie mille ferite, come tutti, per cui non voglio cadere in nessuna scissione difensiva. La mia vuole solo essere una riflessione a 360° sull’essere umano, sul cambiamento e su ciò che succede fuori quando qualcosa cambia dentro.
Da figlio mi sono trovato ad essere molto distruttivo e incazzato verso genitori che per quanti errori avessero potuto fare, credo (ora) che a modo loro ce l’avessero messa e ce la mettano tutta. Solo che il figlio (prima di diventare genitore) non sa che il genitore è prima di tutto individuo, con una sua storia, i suoi tormenti e le sue gioie. Nei miei rapporti affettivi so di aver attribuito responsabilità (dentro di me erano colpe) a persone che magari erano solo li in quel momento di mia transizione. La stessa cosa la vedo ogni giorno in studio: madri che perché incazzate con la vita, si sfogano in modo reattivamente sui figli incolpevoli dicendogli frasi talmente distruttive da distruggere la solidità affettiva del figlio. Padri (e mariti) che sfuggono da vincoli che sentono limitanti per la propria evoluzione personale creando inconsciamente un capro espiatorio nei propri figli o nella famiglia che hanno costruito. Insomma..il dolore la frustrazione ci legittimano a dire e fare tutto? Quando stiamo male biologicamente le nostre attenzioni cadono su di noi e smettiamo di essere empatici con gli altri. Se mi spezzo un’unghia magicamente mi scordo di milioni di bambini che muoiono di fame, nonostante io faccia la differenziata nel migliore dei modi, compri cibo etico e a impatto zero, evitando consumismi inutili, nella speranza magica che comportamenti ecosostenibili possano cambiare il mondo. Quando stiamo male l’altro smette di esistere, nella nostra testa non prova più emozioni, ma è la stessa persona a cui abbiamo detto ti amo un minuto prima o per il quale stiamo preparando il suo piatto preferito e che ci troveremo di fianco la sera stessa. Quindi? Quindi nulla..credo che dobbiamo riflettere meglio sul concetto di onestà emotiva.
Siamo cresciuti in una società in cui le “parti cattive, sporche”, andavano confessate di nascosto, a volto coperto (confessionale), metodo sicuramente efficace a scaricare il peso delle coscienze, ma che ha come effetto collaterale la compressione emotiva, la negazione del malessere, la razionalizzazione del dolore e il giudicare il malessere emotivo (anche quello fisico molto spesso..il brutto male..il non poter nominare una malattia) una colpa di cui vergognarsi. Arrivata la psicanalisi sono spariti i preti. Gli psicologi hanno sostituito la confessione con la psicoterapia. Nessuna preghiera da ripetere in modo ossessivo, nessuna colpa, anzi, è colpa dei genitori, è colpa del passato, è colpa del vicino, è colpa della società e quindi giù rabbia, giù a incazzarci con tutti. “Ecchecavolo!!!! sono stato zitto per tutta una vita e adesso parlo!!! Fanculo a tutti! Ai genitori, colpevoli di non avermi capito e non avermi dato ciò di cui avevo bisogno, fanculo a mio marito che blocca la mia evoluzione, fanculo ai figli che mi sanno solo chiedere, fanculo a tutti!!! Io sono libero, faccio quello che voglio, IO SONO IN CREDITO VERSO UNA VITA CHE MI HA SOFFOCATO! “
Tutto vero.. e quindi? Pensavo a Brooke, (credo si scriva così), la tizia di Beautiful, eterna anima in pena dagli occhi sempre lucidi. In virtù della sua onestà emotiva si è fatta mezza Los Angeles, tra cugini, figli illegittimi, cognati, padri di cognati, amici dei cognati di secondo letto dei padri adottivi, senza nessuna empatia che andasse oltre al pianto del momento (che dura 11 puntate). Ma vale davvero tutto? Il mio non vuole essere un discorso maschilista, moralista o giudicante, tutt’altro! Ripeto, sono un essere umano, mi sono fatto i miei lunghi anni di terapia e so bene cosa vuol dire aver bisogno di un capro espiatorio che mi distrae dai MIEI dolori.
Quindi la risposta dov’è? Non lo so e non voglio avere la presunzione di darla. Spero nella consapevolezza, nell’onestà interiore che non corrisponde per forza ad una manifestazione teatrale e distruttiva del proprio vissuto. Hitler aveva un padre alcolista e una madre simbiotica, un animo sensibile che voleva esprimere facendo lo scrittore e il pittore da giovane, poi credo che la rabbia repressa e un Ego intrappolato in una grande finta timidezza gli siano un filino scappati di mano. Ognuno ha i cazzi suoi in testa, le sue motivazioni per essere arrabbiato, felice, commosso, disperato, sentirsi abbandonato. Ma il tutto avviene in un contesto più ampio dell’Io, siamo circondati da un NOI, che lo vediamo o meno. Il karma dice ne più ne meno questo…senza prendere alla lettera il suo significato: se mi comporto “con rispetto” o quanto meno con consapevolezza, poi le cose mi tornano indietro. E’ una sorta di boomerang. Se cerco di essere consapevole di me e anche dei miei errori, non distruggo nulla attorno a me e anche gli errori col tempo verranno capiti. Se “agisco” soltanto in funzione del mio malessere o sentimento del momento, sarò sicuramente molto onesto con me, ma poi ne pagherò un prezzo, forse troppo alto e per non sentire quella vocina dentro di me che mi dice che sto male, dovrò agire ancora, con rabbia, ricerca di consolazione, dipendenze varie, ecc.
Da dove è partito tutta questa onestà? Questo bisogno di sfogo emotivo senza nessuna riflessione sulle conseguenze successive? Credo da culture repressive e moraliste, culture che ci hanno insegnato a vergognarci della nostra fragilità (non per niente la psicoterapia al sud e nei paesi più culturalmente maschilisti è vista ancora con grande pregiudizio). Poi arrivano i social network, spazio in cui tutti in tempo zero urliamo il nostro odio, il nostro amore, per qualsiasi cosa. Je suis Charlie, poi fanculo a Charlie quando parla male di noi italiani, giù contro la Juve, abbasso Renzi, viva Renzi, Berlusconi a casa, mi manca Berlusconi, ottimo questa cena, che merda questo locale. Non abbiamo nessuna memoria di noi, dei nostri estremismi. In preda alle nostre emozioni vomitiamo sempre, per amore, per odio, per solitudine, per rabbia, per solidarietà…per il solo piacere di vomitare.
Un giorno un paziente bergamasco mi ha detto : chi urla pù sè la vaca l’è la sua (l’ho scritto male, ma vuol dire, chi urla di più si aggiudica la mucca al mercato, scrivere vacca mi sembrava volgare). Beh, un po’ è così. Quando siamo presi da noi stessi ci scordiamo che ciò che facciamo cade sugli altri e di conseguenza su di noi e urliamo di più, come se potesse succedere qualcosa di magico attraverso una manifestazione assoluta dei nostri vissuti.
Soluzione? Non ne ho idea, non sono per la soppressione e negazione emotiva, anzi, così come non sono per il vomitare tutto a prescindere di tutto (sarà il mio ascendente bilancia che non mi fa esporre troppo) ..direi un po’ di misura, ma si sa, la parte emotiva è infinitamente più forte di quella razionale, se no io e migliaia di colleghi psi (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, ecc..) saremmo disoccupati, Freud avrebbe fatto il commerciante di cotone, l’arte in ogni sua forma non esisterebbe e la popolazione maschile di Los Angeles senza Brooke sarebbe miope.