elogio della lentezza

Piccola riflessione sul dolore emotivo, la velocità e il silenzio.

Come ogni anno, dopo le feste natalizie e in generale quando siamo obbligati a rallentare, a fermarci e a stare a stretto contatto con noi stessi e con le persone a cui siamo legati, le persone che chiedono un supporto nel mio studio sono moltissime, in percentuale molte di più di quelle che chiamano mediamente durante l’anno. Ogni anno è così,  e come spesso mi dico, nelle pause dobbiamo fare i conti con quello che abbiamo (dentro e fuori di noi).

Partendo da questa osservazione ripenso   alla mia storia personale, i miei disagi, le mie difficoltà e di conseguenza cosa davvero mi è servito per uscire da questi momenti dolorosi, perché a prescindere dalle mille diversità che abbiamo, sono fermamente convinto che funzioniamo tutti allo stesso modo e che il benessere e il modo di raggiungerlo sia identico per tutti, solo con sfumature, interpretazioni o nomi diversi.
Tutti abbiamo bisogno di accettazione, di essere riconosciuti in ciò che siamo ,nelle nostre aspirazioni, nei nostri talenti,  in quello che vorremmo fare, di rispetto dei nostri tempi emotivi e psichici per capire, sentire, cambiare. Invece la società, ora più che mai, ci illude che la risposta sia fuori; nella visibilità sul social network di turno, nella ricerca compulsiva di “mi piace”, nel numero di messaggi da parte di ciò che definiamo amici a cui invece siamo troppo spesso uniti solo da un profondo senso di solitudine e inappagamento o nell’ossessione del momento che usiamo per fuggire da noi stessi (palestra, shopping, alcol o droghe, sesso o flirt compulsivi, ecc..
Questo vuoto fa parte dell’essere umano, da sempre, solo che ora abbiamo più modi per raccontarcela, per distrarci e allontanarci da noi stessi.
Per millenni l’uomo ha dovuto tollerare la distanza dall’altro accettandola, ignorando dove fosse l’altro o cosa stesse facendo. Allontanandosi doveva convivere con il proprio silenzio, stare con i propri pensieri, accettando il distacco, accettando l’idea che aveva di sé senza cercare per forza conferme continue all’esterno.
Il cellulare ci da l’illusione di essere padroni dello spazio e del tempo, concetti che fanno parte dell’essere umano da un punto di vista biologico, ma l’evoluzione (quella biologica, neurologica) è infinitamente più lenta di quella tecnologica e fisicamente non siamo in grado di tollerare ciò di cui disponiamo e della vita costruita attorno alle nostre scoperte ed invenzioni.
Potendo contattare chiunque ovunque io sia, qui e adesso, indeboliamo terribilmente la nostra tolleranza al distacco. Ovvio, non voglio dire che sia inutile, anzi, io stesso amo la tecnologia e le possibilità che mi da. Ma se mi ascolto, quando la uso senza consapevolezza, il confine tra utilità e bisogno crolla facilmente e altrettanto facilmente mi ritroverò in uno stato psicofisico di bisogno, instabilità emotiva e incapacità di tollerare che il tempo al di fuori di me stesso sia diverso da quello che vorrei (non tollererò o mi agiterò per le attese nei contatti con gli altri).
Andando indietro solo di pochi anni, se mi penso da ragazzo, se avessi voluto vedere un amico avrei dovuto chiamarlo (con il telefono a disco già chiamare richiedeva un tempo per oggi inimmaginabile),sperando di trovarlo in casa o che ci fosse qualcuno che mi dicesse dove fosse. Avrei dovuto prendere la bici, allontanarmi da casa (con genitori non fobici come ora, e lo dico da genitore), fare chilometri  con la speranza di trovarlo, in caso contrario andare da un altro amico o all’oratorio di turno con la speranza che ci fosse,   cercando poi di superare le mie timidezze buttandomi  nel gruppo di ragazzi che trovavo li per giocare.
Ecco, oggi questo tempo psichico di silenzio, distanza, è inimmaginabile e ce lo siamo dimenticati totalmente. Ogni attesa diventa frustrazione, una spunta blu senza risposta diventa motivo di interpretazione e paranoia. Insomma, la tecnologia nel tentativo di togliere le distanze, ci ha indeboliti e ci ha resi dipendenti dal resto del mondo, depauperandoci dalla capacità di tollerare i nostri silenzi, i nostri malesseri, i tempi di attesa per risolvere un imprevisto o un’incomprensione.
In studio, in soli 13 anni di professione, ho visto il disagio cambiare, mutare, spostarsi da una dinamica intrapsichica e relazionale , ad una dinamica totalmente dipendente dalla velocità della società, di cui noi stessi facciamo parte contribuendo alla sua accelerazione; velocità che collude e amplifica terribilmente le fragilità che già fanno parte dell’essere umano.
In questo scenario, personalmente trovo che la vera risposta ad ogni disagio, al di là delle mille teorie psicologiche, sia il fermarsi, la capacità di rallentare e di ascoltarsi. Questo è gratis, non prevede aiuto esterno, prevede solo una fatica iniziale ed una gran paura di uscire dai nostri schemi, dalle nostre compensazioni e fughe. Tutto ciò che dobbiamo fare è semplicemente fermarsi e ascoltarci, respirare profondamente e ascoltare ciò che ci succede. Un caleidoscopio di emozioni e conflitti irrisolti emergeranno, ci chiederanno di distrarci controllando il telefono, rispondere ad un messaggio, accendere la tele o altro. E’ a questo punto che si fa la differenza. Qui dobbiamo restare, respirare, rallentare, non schiacciando il freno, ma mollando l’acceleratore. Dobbiamo essere capaci di tollerare il malessere emotivo senza assecondare una rigidità o compulsività corporea. I pensieri arriveranno, rallenteranno, diventeranno più fluidi, le emozioni più chiare, anche nel loro essere scomode e dolorose, e se continueremo a restare lì senza fuggire distraendoci per allontanarci da quell’angoscia, tutto se ne andrà e con il tempo diventerà tutto più leggero, tollerabile, silenzioso ed estremamente piacevole.
Il silenzio che prima sembrava assordante diventerà compagno irrinunciabile di sé stessi. Ci daranno fastidio rumori troppo forti, luoghi affollati che non ci permettono di ascoltare il nostro partner, tutto assumerà un sapore diverso, perché anche il cibo sarà mangiato per gustarlo e non per riempire un vuoto emotivo.
Quindi, la riflessione è semplice: al di là delle nostre convinzioni su di noi, sugli altri, sulla nostra storia di figlio, sulla voglia di trovare un capro espiatorio per il nostro disagio (genitori, scuola, società, ecc.). fermiamoci, spegniamo un attimo il cellulare e la tecnologia attorno a noi. Possiamo farlo guidando, camminando, giocando con i nostri figli o parlando con il nostro partner.
Un mio paziente una volta mi ha detto: ho deciso di fare una volta al mese un giorno di digiuno tecnologico, un giorno in cui mi alleno a stare con me stesso, per ricordarmi che tutto quello che ci serve è già dentro di noi.
Ecco, forse davvero è tutto qua…per ascoltarsi ci vuole silenzio.

 

2 pensieri su “Piccola riflessione sul dolore emotivo, la velocità e il silenzio.”

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